Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato — La distanza dalla Luce


Dietro le spesse lenti, dando le spalle al Sole alto dell’estate a mezzogiorno, leggeva alcune pagine sfidando quel chiarore che abbacina (e non sapeva se fosse il vuoto o il pieno della pagina a dargli più lucore e ad accecarlo prima, con maggior potenza e precisione).

Righe e righe si imprimevano subito, animate da una necessità stringente anche nella forma fisica dell’alfabeto ormai noto da tempo. Altre scivolavano, e in questo instabile fissarsi e naufragare dentro l’umidità degli occhi che via via si rinsecchivano e lagrimavano, si perdevano come voce di sirene nei flutti, quasi come il mutare dei barbagli sul mare.

Allora, come a seguire esche di un significato frammentato, un poco spostava la pagina, un poco ondeggiava la testa, insensibilmente. Ed il Sole alle spalle a tratto a tratto condotto dalle lenti, confitto nell’ellisse inevitabile (il vuoto e il pieno di ogni riga e ogni parola ed ogni segno; il doppio fuoco in cielo e sulla carta; il senso interno e esterno racchiuso nel capire) senza bruciare nulla, sulla pagina scalfiva col suo ardore nuove lettere che erano vere foto-grafie, emersioni dalla sostanza della porosità che le tratteneva e le cullava, tracce di luce che indugiavano a mostrarsi a seconda che quelle nere di inchiostro si fissassero con forza o meno forza nella mente, che scivolassero prima o dopo comprese, che il vuoto si popolasse di un altro messaggio durante la lettura cadenzata, e si svelasse come intrico di senso già presente ed inattivo ancora, muto ma via via visibile sulla carta e nel Sole e nelle lenti e negli occhi e nel mare di ogni significanza, che senza quel suo darsi della luce alla Luce non sarebbe stato.

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato — Quasi una pioggia


iza saraba / yuki mi ni korobu / tokoro made

Ne sapeva anche un altro a memoria, magari la pronuncia non era corretta, ma immaginava di sì:

tsuyu no yo wa / tsuyu no yo nagara / sarinagara

Doveva sempre fare uno sforzo per ricordare quale dei due fosse di Matsuo Basho e quale di Issa Kobayashi; poi ricordava, ne ripeteva la traduzione masticandola piano in mente, ripensava alla storia della figlioletta di Kobayashi morta bambina, tutto come concatenato, legato alle immagini di vecchi film, antichi quadri.

Vittorio restava così per momenti senza tempo, anche quando era con Sabrina: lei ne ascoltava perfino i silenzi, e lo guardava come se non vi fosse altro al mondo che il volto di lui, con una profondità come ad indagarne i pensieri, perdendosi per qualche interminabile attimo. Poi un richiamo di vita li trasportava nuovamente nel mondo con un sorriso tenero appena accennato; e lei continuava a guardarlo fisso e con dolcezza, quasi senza respirare, con i suoi grandi occhi nocciola e la gioia di chi ha trovato l’amore e dimentica le sue pene osservando l’amato. Vittorio allora girava piano la testa, le ricambiava lo sguardo, e pareva non sentire più il tempo che passa, quasi avendo la testa più leggera e svuotata, resa più libera da quelle carezze degli occhi che solo dopo tempo gli innamorati sanno darsi, quando il fuoco della passione non ha più le stesse fiamme ma la brace cova più calda in segreto — quando l’avventura dell’amore ha iniziato a veleggiare fra i dolori dell’esistenza ed ogni respiro con l’altro è la gioia di condividere l’aria, la fame di profumi della pelle che solo all’amato possono dire chi siamo davvero.

Non le raccontava del suo amore per quelle atmosfere giapponesi che di rado; fin dall’inizio del loro rapporto aveva avuto la gioia rara di poter parlare di poesie, e poi questa si era fatta più profonda e velata quando lui ne scriveva per lei, e Sabrina si commuoveva ogni volta a leggere quei versi a tratti immediati, a tratti invece più densi ed oscuri. Vittorio non aveva in nulla il carattere del poeta giapponese che arriva alla completa trasparenza dello sguardo attraverso un haiku; egli forzava la forma, la applicava a pensieri riflessi, più razionali che frutto della totale penetrazione dell’occhio da parte del mondo, e non era quindi altro che un cercatore di parole e di verità che usava la mente — troppa mente! no mente! gli veniva sempre quel ricordo di un bel film di samurai. Sabrina ascoltava con pazienza le discussioni a volte molto appassionate di Vittorio su quelle idee di quiete e totalità che erano tanto diverse dalle sue abitudini e dal modo di pensare che aveva sempre avuto, energico, sbarazzino, sorridente. Eppure Vittorio pensava sinceramente che le sue discussioni potessero avere un benefico influsso su Sabrina, e aveva capito ormai quando fermarsi per non forzare troppo il buon cuore di quella donna dolcissima e paziente molto più di lui, così innamorata e così affamata di pace e di vita.

Un pomeriggio d’agosto erano insieme, nel silenzio quasi assoluto della città sbiadita dal caldo, svuotata dalla confusione che era al mare in villeggiatura, in un parco, profumato di ultimi fiori che avevano resistito alla canicola e regalavano dopo quello schiaffo intenso il loro perdono al tempo ed al Sole ormai calato. Passeggiavano stringendosi le dita, intrecciandole e slegandole un poco a ogni passo quasi fosse un respiro che dal ventre si stesse propagando alle mani e alle membra, partecipe del darsi universale di quell’aria, venuta da chissà dove e già in partenza mossa dal vento. Si sedettero, soli lungo tutti i viali, e Vittorio guardò i giochi dei bimbi e un colombo appollaiato in equilibrio sull’antenna di una casa discosta, come fosse un pennone d’osservazione per una vedetta in cerca di cibo. Sabrina guardava i tigli, e poi i fiori lanuginosi delle piante poco lontane; poi gli insetti ronzanti nell’aria di fronte alla panca, fissi nel vorticoso sbattere delle ali minuscole.

Fu una ventata più larga e corposa di caldo a strapparli all’incanto senza suoni.

Dal cielo decine e decine di gocciole dense e brillanti cadevano attorno a loro, liquido fuoco che si spargeva dall’aria senza nuvole. I loro occhi non erano sorpresi e osservavano con una rapita ammirazione queste lucciole poco più grandi di una pesca, setose e all’apparenza fluide e lisce come l’olio che cade dalla bocca di un orcio. Un fuoco turbinante, vitreo e mobilissimo, privo di alcun fragore, pura e violenta abbondanza di temperatura, aveva avvolto ogni cosa attorno a loro senza che essi ne fossero coscienti, e ciò non li allarmò. Vittorio prese la mano di Sabrina, si guardarono sorridendo, scivolando l’uno negli occhi dell’altra, e lui ebbe un balzo al cuore vedendo i suoi denti bianchissimi dietro le labbra schiuse. Tutto intorno a loro bruciava: le fiamme altissime non fremevano né rombavano — era solo il calore ad avvolgere tutto, premendo la pelle come l’abbraccio intenso di chi non sta insieme da tempo e stringe il corpo quasi volesse recuperare un tempo uno spazio che non torneranno mai più.

Così, sulla panca, con voce piana Sabrina prese a recitare: iza saraba / yuki mi ni korobu / tokoro made e Vittorio con un sorriso senza voltare la testa rispose Vieni, andiamo / guardiamo la neve / fino a restarne sepolti, e si tennero la mano dolcemente, quasi senza respirare, accanto la pelle con la pelle. Non un frullo d’ali, uno squittire fra le foglie secche; non un sibilo d’acqua lamentosa che spurga dal legno mentre le fibre si squarciano e regalano altro cibo alle fiamme; tutto era silenzio e bagliore di fiamme altissime che li avvolgevano, ricoprivano la panca, i loro abiti, i lunghi capelli di lei, il volto ed il corpo di lui che come lei era rimasto seduto, mano nella mano, ed ora la guardava. Dentro le lingue di fuoco le loro membra si erano annerite, mandavano barbagli proprio come fossero legno pronto a cedere la sua struttura; poi si fecero brillanti e più liquide, con l’apparenza di un metallo arroventato, e l’acqua e il vapore ne uscirono da ogni più intima fibra. Infine, si fissarono come statue di una terra fine e levigata, che divenne più bianca nel fuoco e spense lentamente ogni bagliore via via che le fiamme si alzavano sempre più in alto, sospingendo da terra un vortice d’aria sottile.

tsuyu no yo wa /tsuyu no yo nagara / sarinagara disse piano Vittorio all’orecchio di Sabrina, e ascoltò attorno a sé la voce liberata da ogni peso di lei che ripeteva Mondo di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure. Allora si fusero in una pioggia alta e leggera, e diedero ombra nel cielo mentre il fuoco svaniva.

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato — Il gioco serio


Damiano al Grest non c’è voluto andare: ha sei anni, i compagnetti ci sono andati tutti, la mamma gliel’ha detto tante volte che si sarebbe divertito; ma lui ha protestato, si è arrabbiato, ha pianto, e alla fine anche la nonna e suo papà hanno deciso che sarebbe rimasto con loro, perché in fondo è più giusto così, un po’ di sole e di mare ci vogliono. Tanto, a sei anni, i compagnetti sono davvero solo compagni di giochi, gli amici non esistono a quell’età e noi non ne abbiamo coscienza; non ce ne rendiamo conto, un’amicizia può iniziare e finire fra la colazione e il tramonto, forse nel primo pomeriggio quando si vuole tornare in acqua e c’è sempre la mamma a dirci di no, che è presto e abbiamo mangiato tanto e non possiamo nemmeno giocare a pallone sulla sabbia perché il Sole è forte e non possiamo prendere il cellulare e allora perché ci siamo venuti al mare se non possiamo fare niente, e ci viene una lacrima di rabbia quando vediamo che papà sta dormendo sulla sdraio sotto l’ombrellone e non può dire niente alla mamma, la nonna guarda il mare distratta perché fa finta di non capire la discussione, il nonno non c’è più perché con lui si sarebbe giocato con la sabbia con le formine e il secchiello come i bambini. Perché a volte viene una tristezza grande al mare a sei anni di pomeriggio col caldo senza veri amici senza compagnetti, mentre Giuseppe sorride beato perché sta ancora mangiando e non gli interessa di giocare; e poi sua mamma lo lascia sempre libero, loro tornano sempre tardi a casa dalla spiaggia, non si fanno nemmeno la doccia, e l’altra sera sono tornati di notte, me l’ha detto Giuseppe mentre mangiavamo la pizza: loro l’altra sera hanno mangiato in spiaggia e poi si sono fatti il bagno di notte e hanno trovato una stella marina grande quanto una mano. Ma tanto la mamma non mi crede mai, mi dice ogni volta che non è vero, che Giuseppe ha inventato quella storia come tutte le altre che racconta, lei l’ha vista la mamma di Giuseppe e suo papà mentre tornavano a casa, e non era nemmeno il tramonto, e poi loro sono scesi più tardi, dopo pranzo; e io a dire non è vero, non è vero, mentre mi vengono altre lacrime agli occhi e le labbra mi si fanno dure perché vorrei piangere e nessuno mi ascolta e non so più a chi credere nemmeno io, perché lo so che la mamma potrebbe avere ragione, ma se non credo nemmeno a Giuseppe lei poi non mi farà giocare più. Chissà cosa mi avrebbe detto il nonno, come mi avrebbe messo la mano sulla testa e mi avrebbe abbracciato facendomi il solletico per farmi passare tutto.

“Damiano, esci: dobbiamo andare a mangiare”. Damiano sta giocando con l’acqua sotto il ginocchio a tamburello con Giuseppe; sono le Due e mezzo, Vittorio, un bambino piccolo di quattro anni se n’è andato, tanto faceva l’arbitro ma dava tutti i punti a Giuseppe perché vuole farlo vincere e non conosce le regole del gioco anche se dice di sì non le sa proprio e fa finta di non vedere e con gli occhi si mette d’accordo con Giuseppe. Ora che Vittorio non c’è non segniamo nemmeno i punti, possiamo lanciarci la palla come vogliamo; anche Giuseppe si diverte di più adesso.

“Damiano, ti ho detto che devi uscire! Non te lo voglio ripetere più! È tardi e dobbiamo salire”.

Non solo non voglio sentire la mamma, ma proprio me lo dimentico: io i punti li sto segnando tutti, e so che lo sta facendo anche Giuseppe, in segreto come me. Certo che voglio vincere ma più importante è non tornare adesso non smettere mentre tutto è così bello e non ci disturba nessuno.

La mamma di Damiano ha gridato, più forte più piano, almeno dieci volte “Damiano dobbiamo andare, devi uscire, sto andando via, ora salgo da sola, ti lascio qui, guarda che non ti faccio scendere più, anche Giuseppe e sua mamma stanno salendo, ti ho detto basta, mi devi ascoltare, ora lo dico a papà”, senza che Damiano facesse alcun movimento diverso rispetto a tendere il braccio col tamburello, colpire, seguire con gli occhi la traiettoria della palla, tuffarsi a prendere un colpo a tradimento di Giuseppe, un colpo impossibile, uno di quelli fatti apposta, risalire dall’acqua con una limpida e tesa risata, guardare la risposta di Giuseppe e di sfuggita sentire l’eco delle grida della mamma. Lei guardava le amiche sorridenti, che stavano a qualche metro di distanza, anche loro in acqua, coi cappelli di paglia, gli occhiali da Sole, le timide bucce d’arancia. Loro non sarebbero salite subito per pranzare, lei lo sapeva bene; ma Damiano doveva mangiare.

“Giuseppe e sua mamma stanno restando: posso restare anch’io? Salgo con loro!”

Un gioco non si interrompe per una richiesta di serietà: il mondo dei grandi ha regole che noi durante un gioco non capiamo, né i grandi sanno più che non prendere un gioco con serietà è come non giocare. In quel vecchio libro di Eugen Fink si dice che il gioco è senza scopo, libero e privo di tempo, onnipotente come solo l’irresponsabilità sa essere. Un bambino che gioca con la sabbia, che lancia dei dadi o batte una palla sul tamburello è l’immagine stessa dell’irreale ferocia che non vuole essere fissata né distratta.

Noi tutti siamo nel gioco grande della vita come quella palla, infine lasciata cadere sulla sabbia per andare a pranzare: diventerà essa stessa granello di sabbia, roccia e fiore, un pesce la mangerà e poi sarà nella pappa di un nuovo Damiano fra qualche millennio, a rincorrere nel Sole il tempo che balza fra le mani di un bambino per un attimo felice.

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato—Le case

DIstrazione


La strada lunga e stretta a intervalli si apre in piccole piazzette: è un corridoio fra le case che le accomuna in un respiro, come dentro un grande palazzo d’un tempo si alternano stanze ed anditi di cui non si vede la fine. Anche qui il termine dei muri non svela un orizzonte più ampio: si procede a tentoni, non per una vertigine che assalga il respiro chiudendolo in un soffoco, ma per lo smarrimento che l’alternanza di vuoto e pieno porta negli occhi, come un battito della luce, un battimento di suoni vicini che si sfregano l’un l’altro e urtandosi ne provocano scintille.

Se il nero potesse mandare faville, lo farebbe in tal modo, fra queste basse case allineate e composte per perdersi.


Più in alto il bianco latteo del cielo, che è una stretta striscia fra i muri delle case.


E bianco e nero e rosso si avvicendano in questo labirinto fatto di intonaci vecchi senza finestre: i colori si richiamano col pensiero, si rifrangono come onde d’aria più calda e pesante ora più leggera fra un metro o due, al prossimo slargo, al cogliere la rarefazione dello spazio con il senso del tatto eccitato dai muri e dal vuoto, senza che nulla tocchi o si tocchi, in quello che diventa un castello di carte fragilissime, un papiro vergato un tempo e ormai sbiadito.


Nessuno tocca o si tocca: questo è dato solo al cielo, non qui sulla terra che a tratti scompare, resta solida ai piedi ma sfuggente agli occhi, ed odora di secco agli angoli delle case, come un risucchio di umidità e di respiro. C’è chi trattiene il respiro, chi lo ferma o lo blocca, chi si sfrena e si affanna: ma questi muri hanno porosità minuscole per sentire la risposta che l’aria dalla pelle manda indietro verso le pietre nascoste, ed il corpo risponde per non turbare la geometria della strada, il percorso regolare ed umano del pieno e del vuoto.


Queste case tutte strette tutte uguali tutte porosamente diverse nei colpi di fracasso spugnoso che le ha intonacate, sono l’avvisaglia del cammino al bianco che giunge dopo il fuoco e rischiara il nero primigenio.


Lo sa il viandante inconsapevolmente, lo sente come i muri sentono il cielo ancora virginale: e cammina piano come non vi fosse altro da fare che cercare di regolare il passo e il respiro al ritmo di questo mondo per trascenderlo e conoscerlo.

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato—Bagno Sirena


A Marina c’è una sabbia grigia e scura che in inverno si fa pelle e si screpola sui passi sotto il vento: l’uomo con il sigaro acceso nella sera che scioglie le ultime ombre, salutato il tabaccaio stanco ancora con la serranda aperta per i viandanti delle terme leopolde (come fosse la vecchia provincia balneare d’un impero austriaco ormai dismesso), va verso la sabbia e affonda almeno un po’ pesantemente — cerca freddo e duro sotto i piedi il punto in cui non sono passati cani e padroni, coppie di giovani amanti d’anziani allo iodio di velisti mai presi dall’onde; nel buio vieppiù forte, aspira dolorosamente il puzzo di vaniglia e di salsedine, aspira e aspira col timore che le luci scompaiano e a cui volge le spalle, fino a che trova una traccia. Cammina in tondo per non perderla, la sabbia non toccata dall’estate, ormai come un vetro per le piogge ed i venti che l’hanno temprata: fuma, l’uomo, nel buio; sigaretta non sarebbe possibile — è la misura dei nervosi e dei condannati; fuma il sigaro corto dei disperati, dall’aroma dolciastro per incantamento per l’angoscia del bruciore nella gola dello stordimento in testa e alla fronte; una pipa da gaudente non sarebbe possibile — è lo strumento dei mistici e dei santi, la pipa è di chi ha perso il mondo e non se ne rammarica; fuma l’uomo il sigaro, senza giochi fino a farsi male, per lasciare la sua voce alla donna lontana cui svela la sua malinconia, non fino in fondo, per carezzare il non detto e cullarlo. L’ha vista bellissima e ridente, più donna del solito e tranquilla, a pochi metri da lì, pochi mesi prima, una sera, ultima sera di vita; le ha visto il petto ondoso e forte, l’ha vista più desiderabile di sempre, elegante nei suoi fiori blu e gialli e rossi nel casto occhio di mandorla sul petto fra i seni, lieve ferita che non ha saputo non guardare, veleno come le sue labbra che non ha saputo non ricambiare nel sorriso. Ora la fuma in silenzio, con la macchina poco lontano sotto un lampione d’un tempo, dalla luce arancione, vuota nel freddo di un autunno marino; la macchina lo porterà al caldo a dieci minuti, nel buio del viale alberato; lì a Marina c’è il mare lontano e distratto senza risacca, il sigaro illumina un punto danzante nel vuoto: l’uomo ha paura d’assalti imprevisti; in qualche modo non può tardare, non può approfittare del tempo.

La donna lontana ha un sorriso tanto triste, una pelle tanto astratta tanto bella tanto dolce tanto lontana, che pare bruciarsi ad ogni respiro nella mente dell’uomo: chissà cosa le direbbe, adesso sulla sabbia, se non passeggiassero fino al cavallo rampante, fino al lido dei carabinieri, in su e in giù soli e famelici e allegri di non saper restare insieme. Chissà cosa le direbbe se avesse coraggio di dirlo; l’uomo fuma per avere una voce più roca e somigliare ad un nervoso rigurgito di desiderio da non accettare; per puzzare e non essere accolto e accettato; per dirsi che è questo il motivo del loro non trovarsi, e dare la colpa al tabacco e all’umido freddo: perché l’altra ragione è più dura più vuota più triste, non avere lo stesso tempo, non avere la stessa occasione da rimuginare nel freddo.

L’uomo è andato via: sotto i piedi dei vecchi sampietrini, l’asfalto bucato dai semi di palmette nate per caso negli anfratti e poi spuntate agli angoli dei marciapiedi curvi di radici dei pini marittimi; arriva alla macchina, dovrà preparare da mangiare e ha negli occhi quei seni e il sorriso e l’allegria che non ha mai visto sul volto della donna, rilassata, raminga e libera; il sorriso ha incuriosito tutti, ha rallegrato tutti, ha imbevuto tutti per un attimo di gioia; poi ognuno ha mangiato per sé, scherzato per sé, giocato e ballato per sé; lei è rimasta lontana, il tavolo è enorme, la sera troppo breve, le parole troppo da non dire dinanzi a tutti, gli sguardi da tacere; ha negli occhi quel vestito di mesi prima, col calore di giugno già arroventato. Non la rivedrà più così, né quella sera potrà dimenticarla, o fumare il suo sigaro in casa; il sigaro è il mare o non è, è la spiaggia deserta nella sera d’autunno, o non è. La sua donna lontana è più triste, ed il mare non ha più onde: chissà cosa avrebbero detto se si fossero visti sul duro silenzio della spiaggia, girando in tondo per non perdere un ricordo.

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato—Il giorno dei morti


Vennero qui come in un agguato, lo ricordo bene: l’aria non era né calda ne fredda, qualche nuvola in cielo; da qualche parte in Calabria o già da prima pioveva, nella notte sulle curve d’Aspromonte e di Sila.

L’aria era come un bambino abbandonato: né calda né fredda perché il tempo d’accorgersene non c’era: sul Raccordo Anulare avevo iniziato a pregare e a convincermi: ma pregare e convincere sono i pensieri di chi è fermo, ed io invece guidavo e pensavo all’altrove dov’eri già. Trasmettevo dubbiose energie, mi addossavo malanni; intanto ero in dubbio.

Il panino che mangiai rabbiosamente a notte, al bordo d’una stazione di servizio, fu il primo inconsciamente sapendo ch’eri morto: avventori assonnati, l’autista d’un camion un po’ curioso un po’ stupito: ricordo che pensai di nutrirmi come per senso di responsabilità, ugualmente prendendo le curve un po’ più lentamente perché tu mi dicevi così: la morte rende presenti dei ricordi che non credevamo di possedere in quel modo che a noi sovvengono, ma più scialbi e vuoti; ma essi tornano invece più pieni di rimprovero o di sapore, perché di essi soli ormai siamo responsabili.

Ci si parla diversamente dinanzi alle tombe, quando abbiamo in corpo la morte consapevole dei cari: certi nonni mai visti, cert’altri in qualche modo già lontani: ed altra morte ad altra età sin troppo giovane, che scivola triste ma lucida come i tragitti argentini delle lumache, pronti a sciogliersi alla pioggia; non così per i padri e le madri: lungo la strada per ore ho pensato che con la volontà o con l’entanglement avrei potuto darti un po’ della mia vita: e quando tre giorni dopo ho risentito quella tua canzone tanto cara, Un’ora fa, pensavo fossi tu a farmi compagnia. Dolce verità l’entanglement, la connessione: dolce verità matematica, misurata, che non consola direttamente ma consola lo sprito, non la scorza, non più la carne: Foscolo o Lucrezio o qualche bardo dell’Islanda direbbero bene altrettanto, e altrettanto senza computo e senza conclusione. Ci si parla dinanzi alle tombe come per imitare il morto: io lo faccio inavvertitamente e spontaneamente, attraversato da quelle particelle insieme create e separate dalla calce.

La pioggia chissà come slava i corpi di natura, come attraversa le pietre: sarà, lo spero, una sorta di carezza anche nel freddo intenso, per cui finalmente sgranchire le membra per anni unite, legate imbibite di vita, e adesso distese a scomporsi: ne immagino la sensazione di stanchezza (e una forza operosa le affatica di moto in moto) e il dolce flusso perdersi dalle unghie, dalle articolazioni ormai vuote: ne immagino il solletico che nutre un fiore sgargiante emergere da un ginocchio o da un ombelico — una bella morte, baciati dopo qualche secolo da una farfalla o messi all’orecchio di un inconsapevole nipotina pronta a dare la vita grazie a noi, con un suo caduco compagno.

Vennero in agguato, era il pomeriggio e mangiai voracemente verdure e tonno e del pane senza fame senza sete senza pensare: corsi ad approvvigionare l’inutile, il superfluo: per qualche tempo inconsapevolmente me ne pentii, di aver perso tempo e non deciso da me, attendendo dalla voce di mia madre una conferma. Chissà come avrà pianto, come e in che modo ed in quale misura la morte in lei avrà trattenuto per non far trasparire la morte in noi la morte in te: chissà come avrà detto a sé stessa che ero in viaggio per vedere un padre cadavere: quanta forza avrà avuto lei sola che ha dato la vita. Un uomo non ne sarà mai capace: di accogliere anche la morte e dirla con dolci parole a chi non ha forza né è pronto né è cieco abbastanza per piangere: solo piange la morte chi è cieco, ancora o sempre, d’essere morto: e via via non la si piange più con il medesimo umore, con il medesimo cuore.

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato — Le stanze vuote

DIstrazione


Mi dissero — amici, presenti e assenti (e forse più gli assenti dei presenti) — mi dissero con cura che avrei dovuto tacere, dimenticare, affermare, confermare, soprattutto forse fermare, che dalle mie parti è francesismo per tante cose francesi e non. Fermare, chiudere: fare dunque chiostro. E io questo faccio, stando dentro: scrivo, dunque — in chiostro, che sarà latino forse, sarà cinese, ma la formula alchemica è comune.

E con l’inchiostro cosa dovrei dire? Quel che riesco a fermare, o quel che invece al contrario non posseggo, non fermo, non taccio, non dimentico? Ed io dimentico presto, e troppo a lungo porto con me memorie d’altrove, memorie un po’ malconce.

Da dove era sbucata quella stranita felicità? E quel silenzio, cosa induceva a pensare e seguire: l’arrovellarsi, il distendersi, il piegarsi, il flettersi, forse il genuflettersi, che è un modo fisico di pregare e vedere diversamente le cose? E non m’ero io forse inginocchiato dinanzi alle tue gambe, alle tue mani, al tuo naso alle tue labbra ai tuoi occhi al candore dei denti alla tua pelle bianca ai tuoi capelli lisci? Non m’ero forse genuflesso dinanzi al tuo stupore, che era il mio di tanta naturalezza nel vederti lì come in casa mia, all’angolo di strada, nel silenzio della panchina di legno, nel sole caldo, nel tuo abbraccio lungo? E questo non significa nulla. Senza domanda. Ma da dove veniva quella stranita felicità, quella naturalezza da dove sbucava?

Non mangio più con gusto, né bevo né dormo o respiro. Sono fermo a una fame che non ho più, a una pulsione che non ho più, a un concedermi che non ho — dunque cosa dovrei cedere a me che sta con me stesso, se in verità non ho?

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato – Sarà perché


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Il mare oggi ha una bellezza ruvida e lontana. Sarà perché non sei con me.
Sarà questo vento che impazza a volte caldo, più spesso senza mostrare compassione per gli uomini e le cose e freddo, che cancella le mie orme e dopo un passo le sbatte sul collo, passi di altri cammini altre attese, altre assenze.
Il sole pure, cedendo, si è trascinato in alto, livido: alcune basse nubi si confondono sulla battigia – hanno sete di anime, e vengono a berle.
Il cuore ha onde sbilenche e si affanna: poi, tace – la campana suona l’ora nona, ne conta due, tre, quattro ormai; infine, senza di te, riscopre che è inutile scandire il tempo.
Sul mare ha il suo incedere slegato la vicenda opaca della lontananza: che ore saranno quelle in cui eri già via? Quando, e che mi dirà, la tua parola estranea poi che il vento sarà disciolto?

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato—Saltare


Maestro, vago disordinatamente da un pensiero ad un altro, da un’immagine a un’altra: cosa fare?” “Stai ascoltando la tua voce, o l’immagine della tua voce mentre mediti? Ascolti te stesso o un simulacro di te? Parla il tuo Io o il tuo Me? Lascia che quelle voci diano sfogo alla loro potenza effimera, e le vedrai svanire; non rincorrerle, poiché sono ombre e traggono da te la loro vita. Resta fermo e quieto, e il tuo Io si farà vuoto, poiché vuoto esso è”.

Ma non traggo io forse altrettanto dall’Io la mia forza? Non sono forse io Io?” “Lo stelo che verde nasce sul prato è albero o spiga?”

Quando è sotto i miei occhi, Maestro? Allora è stelo, cibo per vermi, ricovero di coccinelle, ombra per la formica“. “Dopo un anno?” Albero forse, o pane sul mio tavolo“. “Dopo mille anni?” “Come posso saperlo, Maestro?

“Come puoi due dunque del tuo Io ch’esso è Io e che è stabile e saldo da dare a te la tua vita? Non è dentro te quel pane o quel frutto o quell’ombra cui ti appoggiasti come la formica? Non è già nello stelo il ramo da cui saltò il gufo di notte svegliandoti per correre alla sua preda? Eppure tu guardi lo stelo ed esso non è, eppure è”.

E il Me è dunque il tempo che passa?

Il Maestro alzò il braccio dinanzi al suo petto: il sole dalla finestra declinava, e segnava una striscia più scura e più grande sul pavimento. In silenzio l’ombra andava allungando e confondendosi all’altre meno chiare e distinte, finché dopo ore di immobilità dileguò.

Dunque anche il Me è un’ombra illusoria?” “Il Me è il tempo che passa mentre so che il mio braccio è disteso”. “Anche lo stelo sa quindi che la sua ombra sarà tronco o spiga?” “Anche lo stelo sa che si confonderà infine con le altre ombre quando il sole sarà calato”. “Dunque il Me è il sole“. “Il Me è sapere del sole, poiché perfino a notte esso illumina e tu vedi distintamente nel buio dove Io vede l’oscurità. Vedono gli occhi del tuo ricordo del sole, poche ad ogni loro battito è luce ed oscuro, sempre, anche nel pieno giorno”.

Ad occhi chiusi infatti il Discepolo osservava il Maestro e la stanza e le ombre fugaci e la danza delle api e lo scroscio del fiume, serenamente vedendo il loro trascorrere, e il suo Me immobile ancora e vigile.

“Ora che hai visto il tuo Me, trattienilo come il più onorato ospite e conversa con lui. Nel tempo ti spiegherà il Me Stesso che non può andare via”.

Nel buio della stanza, Maestro e Discepolo liberamente si assopirono.

2013-11-06-340

Improvvisi per Polpastrello Ben Temperato—Scorrere


Potremo dirci un’ora felici?, chiese il Maestro: ma c’era un dubbio nel suo tono di voce, e non sembrava la proposta su cui riflettere che veniva a lui discepolo, ma una vera domanda, per la quale non avrebbe dovuto pensare ad un sotterfugio realistico del vecchio per venirgli incontro nella meditazione. Era una domanda: l’affermazione di una incertezza, come aveva imparato a capire; perché nella nostra vita vi sono solamente affermazioni, anche quando hanno la forma che gli uomini ammantano di dubbi e su cui pongono i punti interrogativi. Quando non esistevano virgole o punti, né la scrittura era segnata sulla pietra o sulla carta, le domande forse non v’erano? I punti e le virgole avevano cambiato il Mondo, e reso gli uomini incapaci di comprendere l’animo loro e le nuvole e i moti degli astri e il volere degli dèi? Forse era questo che chiedeva il Maestro? Quando le domande si erano lasciate far capire come qualcosa di imperfetto e di negativo, avevamo perso il lume della felicità? Porre il dubbio, non è forse un atto, e in quest’atto un’azione positiva, dunque un non-negativo? La domanda che ha dimenticato il suo essere forte, il suo uscir fuori per andare verso l’altro, è ancora un vero cercare, o la richiesta che qualcuno venga in aiuto e soccorso, come se fossimo infanti incapaci di spiegare e volere?

Potremo un’ora dirci felici?, rispose con fiducia al vecchio il discepolo.

Erano due incompleti adesso a confrontarsi, perché il Maestro non ha nulla da insegnare che il discepolo non conosca già.

2014-01-08-406