Diario di Maremma—Libri segreti


Passeggio lungo via Mazzini: la strada come sempre è vuota, a qualche angolo l’odore forte di ammoniaca delle deiezioni dei cani e dei gatti, e di qualche viandante notturno e occasionale, convulso dalla birra o dal vino, stimolato dalla canna o dal freddo o dal caldo o dalla noia o dal brutto. Si capisce molto da una via come questa, che è alle spalle della piazza principale del Centro · quella che si definirebbe con un’espressione abusata, il salotto buono della Città · e proprio ad una grande Città la fa somigliare, di quelle senza troppe contraddizioni postmoderne, ma dove semplicemente convivono l’impressione del Bello e l’impressione del Brutto, perché solo di larvate impressioni si tratta, e non di reale sostanza.

Supero vecchi e nuovi ristoranti, negozi spenti e sempre vuoti, fasti ormai dismessi: lungo quella via più nessuno dei tanti clienti d’un tempo passa · non la si sceglie nemmeno come scorciatoia.

Ad un tratto una porta a vetri e una saracinesca sollevata, grigia, impolverata: l’occhio che cade dentro, per abitudine vorrebbe vedere scatolame di cartoni, forse manichini, vecchi materassi — e vede libri. Una distesa su un vecchio tavolo decorato e lavorato come negli anni Settanta, con un fregio a motivi floreali, di un chiaro marrone; e una libreria meno preziosa e più funzionale, zeppa. Tavolo non da esposizione come si trattasse di un negozio di libri, ma tavolo da lavoro, e libri impilati come per rileggerli ed averli sotto mano lestamente, quasi da un minuto all’altro messi lì per poi riaprirli, o tenuti come per compagnia, vecchi fidati d’affezione. La memoria ricrea un portapenne semplice, un bicchiere di plastica blu: ma è la composizione equilibrata di una scrivania pensata ancora calda, abbandonata da poco, non la realtà che la polvere depositata sui vetri testimonia.

E dire che poche ore prima, parlando di lidi al mare da aprire prima o poi — i lidi nella mia lingua sono quelli che qui chiamano bagni e in italiano dicono stazioni balneari, parlando di lidi da aprire e progettare con l’innovazione della musica classica a tutto volume al posto della onnipresente e brutta musica commerciale, una voce di donna aveva detto commentando: “Eh sì, diamine! Proprio qui! Ma te pretendi troppo…!“, accennando un sorriso bonario.

Non mi fermo a guardare, non accelero il passo, non giro molto la testa: non vorrei turbare con la mia curiosità il padrone di casa fisso forse con un libro in mano nell’angolo più buio della stanza, che io non vedo ma dove di certo, se c’è, lui ha molta più luce di me, ormai abituato all’oscurità. Non so perché sia un lui a venirmi in mente: sarà forse il disordine che immagino maschile, null’altro.

È un tratto di via Mazzini questo, in cui la strada ha una breve curva appena più decisa di una accennata che invece piega il ramo principale: tutto il Centro è inscritto in un diamante di mura a protezione delle case e degli abitanti, e le vie tortuose e imbudellate sono quelle di semplici antichissimi strumenti di povera difesa contro gli Invasori, quelle dove l’arma non è un esercito da muovere rapidamente fra cardi e decumani, ma olio bollente o pietre dalle finestre più alte entro cui rintanarsi rapidamente; difese ormai inutili, chissà. Lungo la fine della breve curva le vetrine e le saracinesche a fisarmonica del cinema Marraccini, logore, consunte · un vulnus dentro la Città, che, dimentica, pare non badare e forse gode a mantenere il sollazzo della critica da bar. Ma è destino delle città moribonde avere simili concrezioni non digerite lungo le proprie vie biliari: o come altrimenti capita a certi brufolosi adolescenti intimiditi e malinconici, è destino delle città che non sfogano bene le proprie energie, e le dirigono verso insulse periferie. O forse è una malattia dell’anima che la concretezza terragna e a volte un po’ semitica della mia lingua chiama ‘ncutugnàrisi, dove la polpa morbida della cotogna prende il posto dell’Anima e i semi duri e scivolosi invece il posto delle preoccupazioni non rimosse, non elaborate, non digerite e gestite per invaginazioni ripetute e crescenti, come un mistico ripiegamento che non scorge la luce della salvezza.

Lascio dopo qualche passo quella porta a vetri, di alluminio anodizzato, alle mie spalle. Poco più avanti un vecchio secolare negozio di scarpe, divenuto per qualche tempo negozio di libri, è ritornato nuovo negozio di scarpe — habent sua fata caligae, in questo fortino militare di frontiera, da dove non verranno i nemici. Chissà che non si confondano gli occhi al vedere delle pagine al posto di balestre e frombole…

2 pensieri su “Diario di Maremma—Libri segreti

  1. Umberto, mi viene da sorridere perché la tua frase si potrebbe leggere come un prezioso complimento o come una sorta di dichiarazione finale, del tipo “Basta! Lette queste cosacce, non voglio più nemmeno scrivere!”…
    Ahahahahah, spero invece che tu voglia continuare a scrivere ancora di più e sempre!
    Un abbraccio forte

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